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Dai racconti ... ai romanzi di formazione ... ai romanzi corali

L’arcano sogno del dialogo

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PAGINE SPARSE
TRAMONTO

Nel calendario gregoriano, agli inizi di ogni anno sono di solito previsti i ponti, che non sono quelle ardite strutture di ferro o cemento o legno che scavallano un fiume o altro, e che qualche volta crollano, ma, più semplicemente, l’unica ragione di vita di molti onesti lavoratori.

Lui non è uno di coloro che pianificano questi periodi come fanno invece quasi tutti quelli che conosce, certamente più saggi e previdenti di lui.

I più scaltri di costoro, già a gennaio, ti sanno elencare, con dettagli e dovizia di particolari, le possibili astensioni dal lavoro, non solo per i mesi successivi, ma per l’intero anno. Sono in grado inoltre di mostrarti tutto ciò che era prenotabile e che hanno prenotato, elencando gli indubbi sbalorditivi vantaggi e risparmi; aerei low-cost che, quasi quasi, ti pagano loro per farti viaggiare; auto noleggiate a metà prezzo per tempi lunghissimi e chilometri infiniti; case in affitto in posti ameni, di fronte mare, direttamente sulle piste da sci; alberghi a tante stelle al costo di vecchie stamberghe; villaggi da sogno, dove fanno tutto “loro”, pensano a tutto “loro” e ti fanno fare tutto quello che vogliono “loro”, però a un prezzo modico.

Lui no, non è capace, non è così previdente, è troppo pigro, troppo indeciso, non gli piace ipotecare il futuro, lo fa raramente e solo quando non ne può proprio fare a meno.

Così, ogni volta, arrivati alla vigilia di una di queste pause, la sua compagna gli pone il dilemma della scelta di dove andare. Per quel ponte, avevano deciso che si sarebbero fatti un giro su quelle coste di quel mare vicino a quella cittadina poco frequentata che ancora non li aveva stufati.

Come sempre non siamo partiti presto, abbiamo imparato a non avere fretta, tanto il mare non si sposta e noi possiamo tranquillamente goderci il viaggio senza ansie.

In macchina abbiamo ascoltato alcune letture alla radio e poi discusso riguardo al casello dal quale saremmo dovuti uscire per raggiungere la località che avevamo scelto. Come però spesso succede, guardando la cartina, interrogando l’attrezzo connesso perennemente al mondo, alla compagna cominciano a sorgere dubbi sulla meta stabilita. Nuove proposte alternative si fanno strada, prima tiepidamente, poi con sempre maggior convinzione prendono quota. C’è uno scambio di vedute, poi, quasi di comune accordo, decidiamo la nuova meta: un grande promontorio sul mare da cui partono diversi sentieri. Da lì poi possiamo raggiungere qualche località, qualche porticciolo, per trascorrere la serata.

Usciti dal casello, per un tratto continuiamo sulla strada che corre lungo la frastagliata costa.

A un certo punto la strada prende a salire verso l’interno per arrivare, dopo qualche chilometro, in cima a un dosso, che ha sulla destra il promontorio.

Ci fermiamo presso una cappelletta che si innalza lungo la strada, in fianco si apre uno spiazzo sterrato non molto grande che funge da parcheggio, ci sono già altre macchine, di gitanti più mattutini di noi.

Addossati al rialzo che immette nel sentiero, ci sono dei cartelli un po’ stinti e malandati a causa del tempo, ma anche vittime degli imbecilli che si credono artisti e che sfogano la loro stupidità imbrattandoli con segni illeggibili. A fatica cerchiamo di individuare i percorsi che si snodano dalla pineta che abbiamo di fronte. Il sacchetto del pranzo e l’acqua sono già nello zaino, dobbiamo solo indossare gli scarponi.

La giornata non è bellissima, tuttavia i grossi cumuli di cirri, che gironzolano lassù, non mi sembra abbiano una gran voglia di fare brutti scherzi, si limitano a nascondere ogni tanto il sole, per poi scansarsi per lasciargli il tempo di scaldarci un po’.

Piano piano, dal mare, si incamminano verso l’entroterra e lasciano il sole libero di dare forma ad altre nubi, rinnovando così quell’eterno gioco.

Decidiamo di prendere il sentiero che sale fino in cima alla rupe che si affaccia sul mare, per poi girare intorno al promontorio e scendere in una nota località che sappiamo avere un grazioso porticciolo.

Da lì, Dio volendo, avremmo forse trovato un mezzo pubblico, una corriera, per tornare; è un bel giro, quel promontorio lo abbiamo già percorso in altre occasioni, ma partendo da un altro punto. Ci incamminiamo godendoci il largo sentiero che s’inerpica in mezzo alla pineta, osservando la vegetazione del sottobosco e regolando il passo per la salita. Come da abitudine, ogni tanto rallentiamo il passo per aspettarci. Per un paio d’ore seguiamo il sentiero, fino a quando l’allentarsi della pendenza e l’azzurro che si mostra tra i pini annunciano la sommità del promontorio. Raggiungiamo così un piccolo spiazzo.

Al centro c’è una brutta stele di cemento che forse vuole celebrare il punto più alto e più avanzato del promontorio sul mare.

Ci fermiamo a guardare il cartello che indica le mete delle due vie contrapposte che da lì si diramano, quella che dobbiamo prendere noi s’inoltra ancora in piano verso il mare, mentre l’altra prende a sinistra e si avvia bruscamente verso valle, il paese sul mare, la base della rupe. Ci incamminiamo, dopo poco il sentiero arriva a picco sul mare, poi gira a sinistra e procede lungo la cresta. Qui sostiamo un attimo ad ammirare quel quadro.

È uno di quelli da afferrare, da sistemare bene dentro, uno di quelli da rammentare, da utilizzare come antidoto ai giorni grigio scuro della città.

In questo periodo dell’anno, poi, i colori sono intensi, prima di spogliarsi per andare a dormire, la natura compone splendide tavolozze, mescola tinte ardenti.

Anche il mare assume toni più scuri, più decisi che in altre stagioni, li diluisce solo là dove la luce si riflette sul movimento delle onde o dove le ombre delle nuvole disegnano sulla sua superficie tremolanti, increspate forme. Mi avvicino alla mia compagna, sfiorandole con un dito il viso l’accarezzo a mio modo, non dico nulla, non serve, anche lei mi guarda senza dire nulla.

Ripartiamo, seguiamo il sentiero, cercando un posto adatto per il panino, infine ci sediamo sull’erba gialla, secca, cosparsa di aghi di pino, di foglie morte. Appaghiamo la nostra voracità con quel poco che ci siamo portati: pane, prosciutto, qualche pezzo di formaggio, annaffiato con acqua, quasi fresca. Finito lo spuntino, lei si mette a leggere, lo fa ovunque, gira sempre con un libriccino nello zaino. Io no, io leggo in certe situazioni, ho bisogno di concentrarmi, mi occorrono posti in cui non posso distrarmi. Su quel prato, invece, tutto è in grado di distrarmi. Mi sdraio, sistemo lo zaino sotto la nuca, incrocio le mani e mi metto a controllare cosa stanno facendo le nuvole, quali forme s’inventano, come si divertono a nascondere il sole. Dopo poco, però, ho gli occhi chiusi, vedo altre immagini senza riuscire poi a ricordarle.

Riprendiamo il cammino, per molto tempo procediamo sul sentiero che corre lungo la cresta, afferrando tutto quello che ci offre.

Il sole si è abbassato sul mare, tra non molto se ne andrà da altre parti, senza aver bisogno di dirci nulla; ci fermiamo decisi ad assistere a quel viaggio. Ci sediamo sul ciglio erboso di un roccione molto al di sopra dell’ondeggiare del mare. Ci disponiamo a cercare di ammirare quello che abbiamo di fronte. È da qualche tempo che non ci scambiamo parole, impressioni, nessuno dei due ne sentiamo il bisogno, non è essenziale, stando da molto tempo insieme, abbiamo imparato a sentire senza bisogno d’altro.

Lascio scorrere le sensazioni con misurata calma, voglio centellinare, prolungare il piacere che mi si va accumulando dentro, lei ha lo sguardo lungo, fisso, che si perde in quello spazio enorme.

Scorgo una linea lontana, dove s’incontrano i diversi colori, il blu, che scende fino a mischiarsi al verde del mare; dall’alto il sole intenso si sta avvicinando a quel confine immaginario, lui, che si muove in uno spazio infinito, dà l’illusione di far parte di quel piatto quadro, chissà da chi disegnato.

Aspettiamo il tramonto in silenzio, per cercare di carpire quello che non saremmo mai in grado di esprimere con le sole parole.

Attendiamo con ansia crescente quello che possiamo solo vivere e sentire, ognuno a modo suo, con diversa intensità, non paragonabile, sconosciuta l’una all’altra.

In altri tempi, in frangenti simili, abbiamo fatto all’amore.

Il tramonto arriva e con troppa velocità finisce.

Il sole se n’è andato, rimane soltanto un pallido segno a smentire la sua fine; il chiarore soffuso si spegne piano, i tratti di colore schizzati sulle nuvole lontane, sopra di noi. Domani il sole riapparirà, è quello che fa da sempre, non c’è ragione che questa volta si smentisca, il nostro tramonto invece non ha ritorno. Il Dio che lo ha creato, lo ha pensato in uno spazio, un divenire circolare che gli permette un eterno ritorno. A noi, a ognuno dei suoi sudditi, ha riservato una retta diversamente lunga e accidentata, in ogni caso diritta, che si perde laggiù in fondo in uno spazio indefinito, che non ha ritorno.

Come tutti anch’io ho iniziato quel viaggio che si va allungando, tutti siamo saliti su quel treno, molti, nel frattempo, sono già scesi.

Ho già passato innumerevoli incroci con diversi cartelli indicatori. A un certo punto mi sono dimenticato di essere in viaggio, ho quasi pensato che le tappe non sarebbero mai finite. Con timore ogni giorno ho allungato lo sguardo per scorgere un limite, un avviso, ho solo visto il mio volto riflesso nel finestrino.

Non ho visto nessuno seguire la direzione contraria, forse non è permesso.

Accenno alla compagna che il cielo si fa sempre più scuro, le propongo di incamminarci, il sentiero è ancora lungo.

Ci alziamo, afferrati gli zaini riprendiamo la via con passo sostenuto. Anche questo percorso è a zig zag in alto sulla scogliera, tra cespugli, piante, pini segue il tormentato profilo della montagna. Camminiamo paghi con ancora negli occhi il tramonto, per prolungare l’incantesimo, dilatiamo lo sguardo per non farci sfuggire le forme, le ombre, i colori dipinti dall’imbrunire.

Un altro uomo

Stiamo camminando in silenzio quando ci rendiamo conto che, sul sentiero davanti a noi, c’è qualcuno.

Ne abbiamo prima sentito il rumore dei passi, poi ci siamo trovati a cercarlo con lo sguardo tra le svolte del percorso, spinti dalla curiosità. Lo abbiamo intravisto a intermittenza nel serpeggiare del sentiero e, poco dopo, presso un ampio spazio che si divide in un bivio, lo raggiugiamo.

È una persona di media statura, fisico asciutto, viso abbronzato, di chi è abituato a camminare in montagna, ha comunque parecchi anni sulle spalle.

Si è fermato, si appoggia alle racchette con l’aria soddisfatta e serena di chi, almeno in apparenza, non ha problemi. Lo salutiamo, lei ne approfitta per chiedergli se conosce il sentiero, se porta alla nostra meta. Lui con gentilezza conferma e si dilunga nella descrizione mettendo in evidenza la bellezza della zona e la possibilità di altri percorsi definiti unici, stupendi. Ci spiega che sono anni che frequenta la regione, con un mezzo sorriso, sottolinea che vista l’età e la difficoltà del percorso la fatica si fa sentire, deve misurare le forze, andare piano.

Lo salutiamo e proseguiamo sul sentiero, cercando di goderci lo scampolo di luce che va lentamente a spegnersi.

Impieghiamo parecchio a raggiungere un poggio da dove si può vedere il paese, il suo porticciolo, il mare nella luce più chiara dell’orizzonte lontano. È il momento in cui il paese e le case si stanno illuminando, le luci che appaiono vanno a rubare le forme alle cose che hanno intorno.

Il sentiero dapprima costeggia alcune ville circondate da alte recinzioni. Poi, passata una piccola graziosa chiesetta che domina un dosso, con ampi gradini di ciottoli tondeggianti scende ripido fino alla strada. Attraversiamo le poche case addossate al monte, raggiungiamo una piazzetta poco illuminata cui arriva la strada che dal mare lambisce il fiumiciattolo che scende dal promontorio.

Ci guardiamo attorno, cerchiamo un riferimento, un cartello.

Sull’altro lato della strada c’è una rivendita di cianfrusaglie, entro, chiedo se c’è un mezzo, una corriera che fa servizio. La signora, molto gentile, mi spiega che arriva tra non meno di un’ora, in ogni caso, per tornare alla macchina dobbiamo cambiare alla prima cittadina oltre il promontorio.

Compriamo i biglietti e, forti dell’ora di tempo a disposizione, ci incamminiamo lungo la strada verso il mare. Arriviamo in una piazzetta, il molo circonda a semicerchio la piccola spiaggia, e ci fermiamo dove le onde s’increspano verso la riva, anche se è sera non sono stanche come noi.

Le case che si affacciano sul molo s’innalzano alte, appiccicate l’una all’altra, come acciughe in scatola, tutte di vivaci colori diversi.

Colonne verticali, strette, le liste delle gelosie verde scuro, allungate a disegnare motivi orizzontali. In alto, i minuscoli tetti bassi, quasi piatti, come scuri baschi, alte sagome colorate che fanno cornice al mare, che nel frattempo è divenuto nero come pece.

In basso, i negozi e le vetrine gettano fiotti di luce gialla nel buio crescente senza riuscire a contrastarlo del tutto.

Esibiscono mercanzie che nessun pescatore può trovare utili e nemmeno può concedersi; in quel porticciolo i pescatori sono stati sostituiti da almeno cinquant’anni.

Camminiamo sfiorando le luci, quelle mercanzie non mi possono interessare, per Elena la faccenda è diversa, i suoi occhi sono abituati ad apprezzare il bello.

- Sono cose splendide, che valgono quel che dicono di valere - e indica un vestito, una scarpa, una camicetta.

Una delle luci proviene da un minuscolo bar che ha anche qualche piccolo tondo, traballante tavolino messo di fronte al mare. Per dimostrare che non sono il tirchio che lei spesso pensa che io sia, offro l’aperitivo.

Assaporiamo un buon bianco, con lo sguardo rivolto al mare, sgranocchiando le cosucce che propinano in queste occasioni.

Ci stiamo godendo il porticciolo, gli occhi vanno girando e rigirando e cercano di carpire tutto quello di bello che quel posto, a quell’ora, può regalare, scambiamo impressioni, parliamo della giornata, ci godiamo i contrasti dei colori, il rumore delle onde, la bontà del vino.

- Buonasera!

L’augurio ci costringe a girarci verso il porticato del wine-bar. Riparandomi gli occhi abbagliati dalla luce, riconosco il camminatore incontrato sul sentiero.

- Buonasera! – ricambiamo.

- È arrivato anche lei.

- Sì, ci ho impiegato un po’ perché sono dovuto scendere con il buio, non volevo rischiare di cadere - spiegò.

- Vuole sedersi con noi a prendere un aperitivo? - propone la compagna.

- Grazie, devo aspettare la corriera.

- Anche noi - contento per la combinazione prendo una sedia, l’accosto al tavolo.

- Vuole anche lei un bicchiere di vino?

- Ma sì!

- Il nostro è un bianco, fermo, preferisce rosso, frizzante?

- Va bene bianco fermo, come il vostro.

Vado al bar per ordinare, mentre quel signore si siede al tavolino.

Lei sta spiegando che abbiamo lasciato la macchina all’inizio del sentiero, sopra Camogli; una volta recuperata, andiamo a cercare un posto dove dormire.

- E lei dove è diretto con la corriera? - chiedo.

- Sono diversi anni oramai che possiedo una casa a Camogli, vado là.

Arriva il barista con il vino, ha pensato di portare altri pochi stuzzichini.

Propongo un brindisi in onore di questi luoghi, che in questo periodo dell’anno sono vivibili, mentre in estate erano troppo frequentati.

Il signore è d’accordo, tuttavia ci spiega che, in estate, basta cambiare un po’ le abitudini per riuscire a vivere senza troppo affanno e senza spendere un capitale.

- Allora si può fare il viaggio in pullman insieme - prospetta la compagna - almeno fino a dove abbiamo lasciato la macchina.

- Certo! Vi indico io dove scendere.

Come sempre capita in questi frangenti cominciamo a scambiarci le informazioni di rito.

Da dove veniamo, il lavoro, dove andiamo in ferie, i figli… Chiacchiere di circostanza.

- Lei gira sempre da solo? - chiede lei.

- Certo, anche perché io sono solo, non ho né famiglia, né amici.

Mi accorgo solo ora che non ci siamo ancora presentati.

Lei consulta l’orologio, all’arrivo della corriera mancano una decina di minuti, è meglio avviarci e ci inoltriamo per la strada semibuia.

Il nostro ospite si mette a spiegare.

- È poco più di un paese, che, nel corso degli anni, è diventato il ritrovo e la dimora di tutti i signori che hanno fatto i soldi in città e che qui vengono poi a mostrarli. Le dimore signorili sono sparse per la collina e lungo tutta la costa. Ville stupende, completamente nascoste agli umani come noi, che hanno accesso al mare. Piccole regge, abitate e frequentate da famosi personaggi; i ricchi di sempre, i nuovi arricchiti, quelli che, coi giornali, sui libri, in TV, col cinema, ricchi lo sono diventati, usando quella che definiscono anche “cultura”.

La corriera arriva e riparte in perfetto orario.

Il tragitto dura quasi un’ora, utilizziamo il tempo per scambiarci reciproche impressioni sui luoghi che attraversiamo, così da conoscerci meglio.

La corriera si ferma nei pressi dello spiazzo, dove abbiamo lasciato la macchina. Diamo uno strappo anche al signore e con il suo aiuto troviamo un alloggio, una camera semplice, carina, che incarna proprio quello che di solito cerchiamo in queste escursioni.

- Perché non cena con noi stasera? - propongo, sicuro che anche alla mia compagna avrebbe fatto piacere.

- Non so - risponde lui titubante - non vorrei disturbare, magari voi vi siete immaginati una cenetta al lume di candela.

- No, - risponde con un sorriso lei - non si preoccupi, il lume è una di quelle cose che ha bisogno di tempi lunghi, - e prosegue - le cenette abbiamo imparato ad apprezzarle per tanti particolari che entrambi, anche se in maniera talvolta diversa, diciamo di amare.

La guardo, sono sorpreso, in quella risposta mi sembra di leggere qualcosa di non chiaro, che devo riuscire a decifrare.

Il nostro amico, invece, sembra molto meno complicato e vi legge un invito a passare una serata in compagnia. Appuntamento nella piazzetta di fronte al mare, in fianco alla chiesa.

Ho provato a chiedere alla mia compagna cosa avesse voluto dire con quella frase sulle cene al lume di candela; da sotto la doccia, lei ha farfugliato qualcosa che non capito, dopo non ho voluto insistere.

La serata è bella, tiepida, con una lieve brezza che spira dal mare, le onde sono diventate molto più pigre rispetto a qualche ora prima, quando le abbiamo ammirate al tramonto.

Il mare sembra prepararsi anche lui per andare a dormire, ha rallentato il suo andare avanti e indietro come chi ha intenzione di volersi fermare, chissà se lo farà. I lampioni, che pendono dagli angoli delle viuzze che si aprono sul mare, diffondono un bagliore che mette in evidenzia le irregolari sporgenze delle pareti delle case, proietta bizzarre ombre sotto i porticati, si fa cullare sulle malferme scure onde.

Da sotto un basso, stretto porticato ci affacciamo a un’apertura che dà sul mare, sulle rocce, sulla chiesa; appoggiati al granito del davanzale, sostiamo qualche minuto, nessuno si arrischia ad aggiungere parole a una scena così bella per il timore di sciuparla.

La trattoria in cui ci porta è un piccolo locale discosto dal fronte mare, sotto profondi, bassi porticati, in una viuzza poco illuminata e frequentata.

La signora che ci accoglie mostra un sincero sorriso, con molto garbo propone un tavolino al centro; il nostro ospite, chiamandola per nome, le chiede se è possibile avere un tavolino d’angolo:

- Abbiamo bisogno di un posto tranquillo, dobbiamo conoscerci meglio.

Lei si guarda in giro e dopo un momento d’indecisione indica un tavolo nell’angolino sulla sinistra, che sembra essere il posto più appartato del locale.

- Le può andare bene?

- Certo, va benissimo, - poi, rivolgendosi a noi, dice – scusate, non so voi, ma io in trattoria preferisco sempre scegliere posti da cui posso ammirare il locale, dando le spalle al muro, forse perché, mangiando sempre da solo, mi distraggo a guardare gli altri commensali.

- Va benissimo.

- A proposito, - continua lui mentre ci accomodiamo posando giacche e zaini, - vi farò una piccola confessione. - Così dicendo, si porta la mano alla bocca e lancia sguardi in giro come se temesse di essere sentito.

- Io frequento abbastanza spesso questo locale, quando sono solo, ho preso l’abitudine di guardare i commensali che lo affollano cercando di carpirne le conversazioni, di interpretarne i gesti e, con queste semplici informazioni, che unisco all’aspetto fisico (giovani, vecchi, alti, piccoli, grassi magri, belli, brutti…), cerco di costruire delle storie che abbiano quelle persone come protagonisti.

Si ferma per scrutare sui nostri visi qualche tipo di reazione e aggiunge:

- Mi vergogno un po’, certe volte mi sembra di rubare qualcosa, di violare l’intimità di qualcuno, penso che non si abbia il diritto di usare dialoghi o persone per divertirsi a fantasticare.

- Ma no, - cerco di minimizzare - questo no, è normale che ognuno si ponga domande su chi lo circonda e, di conseguenza, immaginare storie mi sembra naturale.

- Sì, certo, capisco cosa vuoi dire, però io cerco di rubare i dialoghi, spio senza ritegno come si esprimono, è come se tentassi di scavare in quello che sono o quello che fanno -. Si ferma un attimo e aggiunge:

- Certe volte sono preso da frenesia, spero che questo non nasconda qualche sentimento morboso.

- Cosa te ne fai, di tutte queste storie? - gli chiedo.

- Qualche volta prendo appunti, per non scordarmi frasi, volti, particolari dei personaggi, li trascrivo su un libriccino che porto con me.

Così dicendo armeggia in una tasca dello zaino che ha appoggiato in un angolo, lo prende.

È un quadernetto per appunti con una copertina nera e il fronte dei fogli di colore rosso denso, che mi ricorda gli antichi quaderni di scuola, è piuttosto spesso, un elastico, anch’esso nero, lo tiene chiuso, una minuta matita è infilata tra due elastici sul dorso.

Ce lo mostra, lo apre, fa scorrere i fogli, ci vuole mostrare quante pagine sono state scritte, davvero tante.

- Chissà quante storie hai lì dentro! - gli dice lei sorridendo - adesso ci aspettiamo che ce ne racconti almeno qualcuna.

Lui sorride, lo tiene aperto come se davvero stesse cercando qualche spunto, poi alza gli occhi.

- Ragazzi, non prendetemi in giro, sono tutte banali fantasie di un vecchietto che non ha altro da fare.

- Può essere che tu le consideri tali, del resto, tutti i racconti, i romanzi, sono storie, belle, brutte, importanti, banali, che qualcuno racconta prendendo, sapendo, immaginando, fantasticando.

- Certo, - conferma lei - è così, ognuno è libero di pensare e immaginare qualunque cosa e poi, se ne è capace, la può anche scrivere, per sé o anche per gli altri, l’importante è che non si arrivi a violare la vita intima di qualcuno; anche questo è tutto da verificare, non esistono regole al riguardo se non il buon gusto, il buon senso, che non ha regole scritte.

Lui sta soppesando il libriccino e io divento sempre più curioso, se il nostro nuovo amico non avesse voluto parlare di quella sua passione, non si sarebbe spinto così avanti.

- Se non sono indiscreto, - mi azzardo - visto che hai già in mano il tuo libriccino, raccontaci qualche bella storia, mi hai molto incuriosito.

Si avvicina la padrona del ristorante, ha in mano un blocchetto e una matita, chiede cosa vogliamo mangiare.

Avevamo dato solo un’occhiata al pezzo di cartone su cui c’era trascritto il menù, lo riprendiamo, mentre lui sta chiedendo:

- Cosa c’è di buono questa sera signora Lia?

La signora sciorina con calma e precisione i piatti, soffermandosi su diversi particolari:

- È freschissimo, è tenerissimo - e così via.

- Ci consigli lei, che è di casa, a noi va bene tutto, anche perché la fame si fa sentire dopo la camminata di oggi.

- Allora faccio io? - propone lui, contento dell’incarico e desideroso di mostrare i meriti di quel posticino - Non ve ne pentirete.

Così dicendo si rivolge alla signora chiedendo determinate pietanze, discutendo del vino più adatto, mentre cerchiamo di immaginare cosa può arrivare.

La padrona si allontana e, sul viso del nuovo amico, appare un sorriso malizioso:

- Non possiamo ora imbastire storie, solo frutto della mia strampalata fantasia, non è il momento, lo faremo un’altra volta, se ci sarà.

Arriva una ragazza che sorregge un grande vassoio con acqua, vino e pane, che posa sulla tavola. Ci buttiamo sul pane fresco, mentre lui versa il vino di un bel colore giallo paglierino e, quasi con impazienza, alza il bicchiere:

- Facciamo un brindisi! Brindiamo a noi vecchietti, al nostro incontro.

Sbatacchiamo i bicchieri e, dopo aver assaporato il vino fresco, ci troviamo a guardarci in faccia, come chi non sa da dove, in che modo e di cosa debba incominciare di nuovo a parlare. All’improvviso sembra che non abbiamo più nulla da dirci, o meglio, nulla da dirci delle cose che finora ci siamo scambiati, ci sembra che sia venuto il momento di affrontare argomenti diversi, nuovi, anche se non tutti piacevoli.

La persona seduta di fronte a noi in quell’angolino protetto, isolato da tutto il resto, appare, a entrambi, non più come un interlocutore qualunque, qualcuno incontrato per caso con cui discutere di un po’ di tutto senza qualche particolare scopo. Guardandolo, come lui ci guarda, sembra essere qualcuno che abbiamo già conosciuto da molto tempo.

- Sapete qual è la mia storia? - ci apostrofa, mentre ripone nello zaino il libriccino.

- No - rispondiamo quasi all’unisono, presi all’improvviso.

- Come potremmo?

- Le storie sono tutte uguali, nel loro senso generico, si differenziano solo per i particolari e quelli possono essere interpretati e quindi esistono solo per chi li vuole fare vivere - ci spiega lasciandoci perplessi.

Siamo seduti intorno a un tavolo, con un bicchiere di vino che ci unisce, stiamo aspettando da mangiare e fino ad adesso abbiamo piacevolmente chiacchierato.

La domanda sulla sua storia è ancora lì, sospesa, in ognuno di noi si va facendo strada il pensiero che scambiarsi le nostre storie sia il vero scopo della cena.

Per me è come se un accordo in tal senso lo avessimo già tacitamente sottoscritto. Le parole, i fatti raccontati hanno senso solo se formulati il più vicino possibile a quella verità cui ognuno fa riferimento; non sono, non devono essere una storia inventata.

Come se avesse letto queste mie riflessioni, l’amico dice:

- Al posto di quelle degli altri, solo immaginate, vi posso narrare le mie vicende, se questo non vi annoia - propone guardandoci entrambi.

- Certamente non la storia della mia vita, solo una parte degli eventi e delle conseguenti scelte che mi hanno condotto qui insieme con voi.

Non abbiamo nulla da obiettare.

- Fino a non molto tempo fa, vivevo con la mia compagna al coperto di una normalità che ora posso definire a posteriori apparente, non agli occhi degli altri, la cui cosa non mi recava il minimo problema, ma ai miei, anzi, posso oggi dire ai nostri.

L’abitudine del vivere insieme si rivelava qualcosa d’ineluttabile che assorbiva il tempo, giorno per giorno, fino a farlo divenire una routine che generava un’esistenza normale, con tutte le particolarità che ognuno di noi ritiene positive e quelle negative del vivere comune. Eravamo immersi in una vita in cui eravamo convinti di saper interpretare il comune pensiero, dove credevamo di essere capaci di riuscire a determinare le cadenze del tempo condiviso, dove eravamo certi di decidere insieme le nostre azioni, sicuri di essere in grado di controllare perfino le emozioni di entrambi.

- Da tempo, da anni, sapevo che così non avrei potuto continuare, me lo ripetevo spesso, e me lo diceva anche la mia compagna in forme e tempi diversi, ma a cadenze costanti nel tempo.

- C’è qualcosa che non va, - diceva lei - non passa molto tempo senza che non si accumuli acredine, non riusciamo a spezzare questo cerchio che ciclicamente e inesorabilmente ci allontana.

- Penso, – prosegue - che entrambi affrontassimo questa realtà senza una vera volontà di risolverla, non sapevamo né cosa né come dovessimo chiarirci. Quanta gente vive apparentemente benissimo così!

- Ma perché ora vi racconto questi particolari, che si possono considerare banali? Perché, in una piacevolissima sera davanti a un buon cibo, un buon vino, annoiarvi con una vicenda molto banale, senza particolare interesse?

Entrambi cominciamo a intuire che quella sua apparente storia normale potrebbe avere a che fare con qualcosa che ci riguarda.

- Il tempo, è per il tempo che vi racconto questo, e non mi riferisco a se domani pioverà o farà bello, ma a quello che ci è concesso ancora come vita da vivere.

Si ferma un attimo, sta gustando spaghetti conditi con un pesce di cui non abbiamo capito bene il nome e ne approfittiamo per riempirci i bicchieri.

- Non sei poi così vecchio - lo apostrofa lei.

- Tanto giovane non sono, - risponde - ma mi riferivo al tempo che avrei dovuto condividere con la mia compagna, alludevo al fatto che, a un certo punto, eravamo arrivati entrambi a un punto morto: passavano gli anni, ci ritrovavamo sempre più lontani e avevamo paura di guardare avanti.

- Questo quanto tempo fa accadeva? - gli chiedo.

- Sono oramai quasi quattro anni che io vivo solo e non so dirvi se avrei potuto evitarlo, oppure se dividerci sia stato un bene per entrambi.

- Come siete arrivati a questa decisione? - gli chiede la mia compagna.

Lui sorseggia a lungo, svuota il bicchiere, noi lo imitiamo rispettando il silenzio, non sapendo se abbia ancora voglia di ricordare.

- Come già vi ho anticipato, il tempo ci aveva portato a quella situazione e noi cominciammo ad averne timore, era qualcosa da cui dovevamo difenderci, con cui avremmo dovuto fare i conti. A un certo punto mi risolsi a mettere un punto fermo al nostro rapporto, l’occasione si presentò nel momento in cui entrambi ci accingevamo a ritiraci dalla vita lavorativa. Mi sembrava una svolta essenziale nella nostra vita, un punto ideale per fare scelte importanti.

- Anche in anni precedenti, in momenti di particolare conflitto, spesso avevo immaginato che quella di separarci, di andare a cercare un nuovo tempo con qualcun altro fosse una possibilità, ma non avevo avuto mai la forza o il coraggio o l’occasione di farlo.

- Ne parlai alla mia compagna, che però, essendo più giovane di me di qualche anno, non percepiva il mio dipingere “pesantemente” la nostra esistenza, non riuscivo a capire se per lei fosse normale e se comunque si sentisse appagata, ma non mi sembrava.

- Vi sto annoiando? - chiede sorridendo.

- No! Risponde lei - mi pare che tutto questo racconto abbia aspetti molto comuni, diffusi.

- Io m’imposi di arrivare a una conclusione in un modo o nell’altro, però non sapevo dire come, tutto si trascinava, non ne uscivamo, alla fine, una di quelle tante volte in cui eravamo scazzati, anche più delle altre, le dissi che non ne potevo più, che non avrei continuato a vivere a quel modo, che, se il nostro stare insieme era così, me ne sarei dovuto andare.

Lei mi rispose molto secca e precisa:

- Allora va’, quella è la porta!

Fa una pausa, a guardarlo sembra che l’esperienza la stia vivendo un’altra volta, per qualche attimo rimane sospeso, ci trapassa con lo sguardo.

- Dopo qualche giorno da quel diverbio, ci siamo separati, da allora non ho più visto la mia compagna. Capite ora perché vi ho parlato di questa storia, dell’importanza del tempo? - ci chiede guardandoci.

- Oggi, quando vi ho incontrato, vi sembrerà ridicolo, poco simpatico, ma mi sono rivisto in voi.

- Anche noi camminavamo sempre insieme, anche noi qualche volta ci tenevamo per mano, anche noi qualche volta facevamo all’amore, anche noi…, anche noi…,ma non è bastato.

Si guarda le mani che si strofina con frenesia l’una contro l’altra.

Io guardo la mia compagna, cerco di leggere qualcosa nei suoi occhi.

- Non mi sento di dire che oggi non sia un poco contento, ho trovato una mia dimensione che in parte avete visto, ho l’amore dei figli, forse dei nipotini, ma il tempo, quello mi assilla tutti i giorni.

Poi conclude:

- Vi posso assicurare che, il tramonto di oggi sul mare, che voi avete ammirato insieme, guardarlo da soli è una metà del tutto e il tutto, quando esiste, esiste solo se si è capaci di condividerlo.

Chiedo il conto e vado al banco a pagare.

La signora della trattoria, tenendo aperta la porta, ci augura la buona notte e si ferma a osservare quella coppia che s’incammina lentamente lungo il porticato che sfiora il mare, mentre la luce dei lampioni disegna due ombre informi sulla parete di fronte.

La produzione letteraria di Camillo Rigamonti

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