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Dai racconti ... ai romanzi di formazione ... ai romanzi corali

L’arcano sogno del dialogo

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ABBOZZI DEL TEMPO
MORGAN

Da qualche tempo la primavera ha preso il sopravvento sul freddo, sul grigio, i suoi colori hanno invaso i campi, i boschi, il buio arriva sempre più tardi.

Le grida dei ragazzi riempiono il paese, in piazzetta, hanno iniziato una partita di pallone, poi sono rimasti troppo pochi, qualcuno, non potendo sottrarsi ai richiami, ha dovuto andare a chiudersi in casa. L’anno scolastico si avvia alla fine.

Roberto ha proposto di andare in cortile, verso il fondo dove confina con gli orti, i prati, nell’angolo, al riparo dai passi, dalle ruote dei carri, dove il terreno è duro, loro hanno tracciato il campo, scavato le cinque buche per il gioco con le biglie.

Morgan è tutto il pomeriggio che se ne sta sdraiato sotto il portico della stalla.

Quando ha sentito le grida ha alzato la testa, forse non ha nemmeno aspettato di vederli arrivare, li conosce bene quelli, uno per uno. Lui non lo sa che lo chiamano così per via della macchia nera che gli copre metà muso e per intero un occhio, ma non gli importa, non gli dispiace, sa solo che quello è il suo nome e tanto basta. Del resto lui è solo un bastardo, per giunta non ha un solo padrone, anche se preferisce il vecchio Paolo, forse perché è l’unico che qualche volta allunga la mano a grattargli il collo.

Con gli altri convive, lui fa parte del cortile, nessuno lo disturba, anche con i gatti c’è un tacito accordo di coesistenza, lo conoscono tutti, capita di rado che qualche randagio forestiero si spaventi alla sua presenza. Passa la giornata bighellonando in cortile, qualche volta segue Paolo o qualche altro contadino nei campi, ma poi, mentre loro lavorano, si annoia, allora va a farsi i suoi giri. Per accaparrarsi la benevolenza delle donne, che sono poi quelle da cui dipende il suo vitto e alloggio, gioca e sopporta le molestie dei bimbi, anche quelli più piccoli quelli che gli fanno più male. I ragazzi grandi sembrano ignorarlo.

Ma non quella sera, quella sera a qualcuno, forse annoiato, forse arrabbiato perché sta perdendo la partita con le biglie, viene la bella idea di fare uno scherzo proprio a lui, a Morgan.

- Se gli leghiamo alla coda dei barattoli di latta e lo facciamo correre, Morgan si spaventerà, sentendo quel rumore dietro di sé continuerà a correre, non si fermerà più.

- Ma così scapperà chissà dove! Poverino!

- Ma no! Correrà per un po’, ma poi, prima o poi, si fermerà.

- Non è un gran bel gioco, se mia madre ci vede molestare Morgan, mi fa nero.

- Che balle, sei sempre il solito che si oppone a tutto.

Morgan non si oppone, è abituato a sentirsi le mani addosso, neanche quando gli legano la corda alla coda ha qualcosa di dire, si guarda intorno qua e là non si aspetta niente di strano.

Qualcosa di strano però c’è, quando lo fanno alzare, quando si mettono a gridare da vicino, lui senza capire fa qualche passo, in effetti, sente che ha qualcosa attaccato alla coda, qualcosa che tira la coda, striscia per terra, fa rumore, non gli piace.

- Forse correndo riesco a togliermelo.

Non è così, più corre, più c’è rumore, più corre, più quelli urlano, imbocca il cancello, il sentiero che corre giù per la collina, ma il rumore non cambia e quelli corrono con lui, più di lui. Dopo gli orti, i pollai, senza un vero motivo, gli viene in mente di buttarsi nel prato, nell’erba già alta, nuova, grassa, l’erba verde, scura della primavera. Il rumore si è attenuato, è quasi cessato, i ragazzi lo hanno seguito, gli sono corsi di fianco, davanti, hanno inteso il prato come fosse il mare, presi da chissà quale ebbrezza, gli sono addosso, si tuffano, ruzzolano nell’erba, si avvinghiano tra di loro, si cingono, rotolano, anche con lui.

Poi, come d’incanto, tutto sembra fermarsi, respirando forte restano supini, immersi nel mare d’erba umida della sera ad annusare il suo profumo, fermi ad ascoltare il loro brusco silenzio, con lo sguardo rivolto ai cirri che rigano l’azzurro che si fa sempre più denso per l’imbrunire.

Morgan è rimasto lì vicino, sdraiato in mezzo a loro, lui non guarda il cielo, con la lingua ancora penzoloni per la grande corsa li sta guardando, non ha capito cosa stanno facendo così sdraiati, braccia, gambe aperte, allora accenna un debole latrato, vuol solo far presente che nel mare c’è anche lui.

-Fiiiiiiiiiiii uuuuuuuuuuuu, il fischio è debole, ancora lontano, lo hanno sentito tutti però, anche Morgan, che gira il muso verso il basso della collina, da dove proviene.

- Andiamo a vedere ul Gamba de legn!

Bisogna raggiungere il ponte, dove la strada incrocia, sovrastandola, la ferrovia incassata nella massicciata sottostante.

Qualcuno libera Morgan dai barattoli, poi tutti a correre verso la strada e poi giù, una volata verso il ponte. Si affacciano al basso parapetto in pietra che costeggia la strada, frenano ancora per poco l’eccitazione, l’impazienza, hanno ancora il fiato grosso, anche Morgan appoggia le zampe sul parapetto, ma non sa cosa guardare. Restano così, in attesa del grosso mostro nero che passerà sotto di loro, forse in ritardo, ma di questo loro non si curano, tempo ne hanno.

Da quella postazione la vista si spinge abbastanza lontano, laggiù in fondo, dove i due binari, ancor prima di una larga curva, contro ogni logica geometrica, si uniscono tra di loro.

Tendono l’orecchio, il rumore si fa più forte, gli sbuffi si fanno sentire, poi il gigante appare anche se ancora lontano, dietro la linea degli alberi che costeggiano la ferrovia, il soffio del fumo grigio, si innalza chiaro a ritmi precisi, soffi, sputati verso il cielo, forse andranno ad aggregarsi alle nuvole, quelle che si vedono in certe giornate d’aprile. E’ così che il Gamba de legn annuncia il suo imminente, atteso arrivo.

Poi, in un veloce susseguirsi di eventi, quella mitica, diabolica creatura sembra avanzare a fatica verso il ponte, ansimando, inondando di fumo e di rumore il suo incassato percorso.

Loro la accolgono con salti, con grida di gioia, coi saluti delle braccia alzate agitate verso il cielo, gesta che raggiungono l’apice quando arriva e passa sotto il ponte.

Allora tutto è invaso, sommerso dal fracasso, dal fumo, e loro sono avvolti in una nuvola grigio-scura, per timore del soffio del mostro si scostano dal parapetto, si tengono le mani sugli occhi per non lacrimare, poi corrono sul lato opposto del ponte per seguire ancora la sua corsa, solo Morgan sembra non capire cosa stia succedendo.

Affacciandosi al parapetto, lo salutano, agitando le mani, gridando a più non posso, cercando invano di sovrastare l’infernale rumore, sperando di farsi sentire dai pendolari che ignari di loro, tornano dalla città dopo una giornata di lavoro.

Come un grosso pachiderma, Ul Gamba de legn, senza curarsi di nulla, continua il suo andare, trainando le sue carrozze, che sembrano dondolare, un po’come fa una papera che guida le sue paperelle quando scivola sull’acqua di uno stagno. Lo vedono così allontanarsi, mentre corre incontro alla curva che lo conduce alla stazione di Besana, sanno che si dovrà fermare un momento a riposare, a scaricare gente anch’essa stanca, a rifornirsi d’acqua o di carbone, se ne ha bisogno.

Dal ponte, lentamente, si allontana anche il tanto rumore, si dissolve nell’aria l’informe nuvola di fumo.

Loro, ancora per un poco, rimangono a braccia alzate, restii a contenere, a dover far finire l’entusiasmo, che però, con il treno sottratto alla vista, sciama presto. Come sempre, al diradarsi di un momento di gioia, di eccitazione, complice il sopraggiungere del silenzio, i momenti che seguono si inzuppano di un velo di malinconia. Si allontanano dal parapetto, hanno gli occhi arrossati, lacrimano, li stropicciano per cercare di togliere la polvere di carbone.

Morgan si è già avviato su per la salita verso il paese, si volta a guardarli: non sa se aspettarli.

La produzione letteraria di Camillo Rigamonti

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