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Dai racconti ... ai romanzi di formazione ... ai romanzi corali

L’arcano sogno del dialogo

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ABBOZZI DEL TEMPO
TENTATIVO DI FUGA

I giorni che seguono la festa del paese sono cupi, plumbei, proprio come il cielo di fine novembre, sempre più corti, più freddi.

A scuola ci andiamo imbacuccati, poca voglia di correre, di parlare; il primo vero freddo cui non siamo ancora abituati ha congelato anche il nostro bisogno di fare schiamazzi. Ci muoviamo a gruppi lungo la via del paese, alla murella inizia la discesa del risculet. Il pratone che si stende fin giù alla scuola è coperto dalla brina, i fili d’erba, avvolti dal bianco opaco dell’umidità cristallizzata, danno l’impressione di essere congelati e sulla neve si lasciano le impronte.

I rami dei cespugli che costeggiano il sentiero, sottili, aggrovigliati, sono anch’essi velati di bianco, come la terra nuda degli orti; la brina imbianca il verde rimasto: cavoli, verze, qualche residuo di verdure, qualche ciuffo d’erba scampato alla vanga. I ciottoli del sentiero, levigati dal passaggio, sono bagnati, viscidi, scoraggiano la voglia di correre.

Nelle nere bluscet, dalla strada, dai sentieri, arriviamo a scuola sgranati.

Come cornacchie, ci raduniamo, facciamo capannelli nel cortile, pochi hanno voglia di rincorrersi. Appena la bidella apre, ci rifugiamo in aula, sono lontane le mattine in cui ci si attardava ed era la maestra che ci richiamava. In aula si cerca il tepore della stufa di ceramica, che la bidella accende al mattino presto, grande, lucida, marrone scuro. I ragazzi e le maestre ci mettono a scaldare le schiscette del pranzo.

Non sono molti gli eventi che in paese hanno il pregio di spezzare il quotidiano, l’uccisione del maiale di Zuè, il primo dell’anno, è uno di questi.

Negli anni è diventato un appuntamento che tutti conoscono, si aspettano, come tante altre ricorrenze. C’è chi sostiene che è troppo presto, l’inverno non è ancora iniziato, il freddo durerà ancora tanto. È un venerdì pomeriggio e nella Curt dei Paisan Neuf, di fronte al portico della stalla di Zuè si è radunata un po’ di gente, vecchi, qualche perdigiorno, noi ragazzi. Macellare il maiale è una festa che l’uomo compie da sempre, la liturgia che l’accompagna, le gesta che si compiono, non hanno più segreti. Per noi ragazzi è un rito come tanti altri che conducono il nostro crescere, come le cerimonie sacre, pagane, violente, drammatiche che il legame con l’ambiente di natura ci insegna.

Zuè e suo fratello vanno avanti e indietro, dalla casa al portico, controllano che tutto sia pronto, in ordine.

La vecchia madre ha preteso un posto in prima fila, seduta in fianco alla porta di casa, tutta infagottata, lo scialle nero sulla testa, una coperta di lana sulle ginocchia. Vuole stare a portata di voce dai figli, manda occhiate qua e là, attenta a non perdere nulla di quello che avviene intorno a lei. Zuè sembra impaziente, lancia sguardi oltre il prato dietro la chiesa, verso la Madonnina.

- Il macellaio è in ritardo! - la voce si diffonde - Arriva da una cascina vicino a Villa Raverio - sostengono i più informati.

In attesa ci siamo seduti sul muretto della scala della chiesa, non si parla molto, qualche battuta, un riso che tradisce nervosismo, impazienza, eccitazione, molti di noi hanno già visto, sanno cosa accadrà.

Non passa molto, in lontananza si sente il rumore, tutti guardano la piazza, dall’angolo compare il furgoncino del macellaio.

Zuè accorre, si affretta ad aiutarlo a scaricare le attrezzature, in silenzio il pubblico serra i ranghi, si avvicina, forma un semicerchio di fronte al porticato. Tutti sanno che il maiale farà l’entrata in scena dalla porta della stalla, in fondo al porticato. Il macellaio ha indossato gli abiti del mestiere: ha arrotolato le maniche della camicia scura parecchio sopra i gomiti, si è messo un lungo grembiule, un tempo bianco, che gli copre il davanti, dal collo fin quasi a terra, ai piedi s’intravedono le nere punte degli stivali, in mano ha un panno in cui sono avvolti i ferri del mestiere. È un signore alto, robusto, il viso cosparso da una corta barba non curata, sotto un gran naso un paio di baffi neri, grandi occhi scuri si muovono lenti sulla scena. Non tradisce incertezze, conosce il copione a memoria, lo ha recitato centinaia di volte.

Con addosso i tanti occhi, tallonato da Zuè e il fratello, si dirige a passi risoluti verso il porticato.

Su una cassa, preparata nell’angolo per averli a portata di mano, appoggia i coltelli, apre il panno che li avvolge. Mentre a bassa voce scambia qualche parola con i due fratelli, li controlla uno per uno. Si gira, senza smettere di parlare si guarda intorno, chissà cosa stanno confabulando...

Il pubblico avverte l’imminenza dell’evento, si avvicina ancora un po’, non vuole perdere niente della scena, la mamma di Zuè fa segno di spostarsi, di non ostruire la vista, il passaggio.

Zuè e il macellaio sono spariti oltre la porta della stalla, in fondo al porticato, l’hanno lasciata aperta e di fronte è rimasto il fratello. Cala un silenzio irreale, il pubblico è in trepidante attesa.

Il maiale, prima di vederlo, lo sentiamo.

Ha cominciato a mandare grugniti acuti, laceranti, come se lo stessero già sgozzando dentro la stalla. Le grida improvvise passano come una folata di vento, nei più generano fremiti, per mascherare la tensione qualcuno accenna un sorriso, tutti gli occhi sono puntati sulla porta, come un fiume in piena, gli strilli sgorgano con sempre maggiore intensità.

Per primo appare il macellaio.

È curvo sulle spalle, piegato in avanti, ha in mano una corta corda che tira con decisione, legata a una zampa del maiale, che fa la sua comparsa subito dopo.

Ha la bocca spalancata, lancia al vento i suoi grugniti, sempre più acuti; gli occhi sbarrati, pieni di terrore, fissano il carnefice che fa fatica a tirarlo, lui si oppone con tutte le sue forze, Zuè ha in mano la coda della povera bestia, spinge con tutto il suo peso, con tutta la sua forza.

- Un gran bel maiale! - commenta la gente. - Grosso, non grasso, è lungo, ha lardo basso e venoso, una bella bestia -. In molti dondolano la testa per approvare.

Noi ragazzi stiamo a sentire i commenti dei vecchi, guardiamo la scena, al trio si è aggiunto anche il fratello di Zuè, che aiuta a spingere, e a fatica il quartetto avanza verso il proscenio, il luogo dell’esecuzione. Lui urla tutta la sua disperazione.

Poi, come in un film, di colpo la scena cambia.

Il maiale ha un lampo di genio che sorprende e lascia a bocca aperta tutti, attori e spettatori.

Forse perché per la prima volta ha visto il mondo fuori dalla stalla in cui è vissuto per mesi o perché ha la certezza dell’ineludibilità del destino, o per chissà quale altro motivo, fatto sta che il maiale di colpo smette di opporsi a chi tira davanti e a chi spinge da dietro e di punto in bianco, con decisione, si lancia come una nave tutto a dritta, in avanti.

L’effetto è grandioso, tanto che qualcuno del pubblico, tutto eccitato, si mette a battere le mani.

Non avendo più un punto di appoggio, quelli che spingevano cadono in avanti, mentre il macellaio, che invece tirava, all’improvviso allenta la presa e vede venirgli contro l’ammasso rosa col muso spalancato, minaccioso, urlante. Per un pelo si evita lo scontro frontale, non capiamo se per merito dell’uomo o della bestia, che, sfiorando la gamba all’uomo, già in equilibrio precario, gli fa perdere del tutto la stabilità. Mentre casca, volendo appoggiare le mani per terra per cercare di salvarsi il culo, molla la corda che lo ha tenuto legato fino a quel momento alla bestia.

Il maiale, senza un attimo di esitazione, grugnendo sempre di più, si lancia verso il pubblico, che, colto alla sprovvista, a fatica ha il tempo di scansarsi per fargli strada; qualcuno, nel trambusto, viene spintonato e cade.

Tutti ci troviamo a vedere il didietro della bestia filare, come un razzo, verso la piazza del paese di fronte.

- El scapa! El scapa! -

Si mettono a urlare in molti; è un momento di confusione, tutti sono rimasti paralizzati dalla sorpresa, nessuno si aspettava un esito così fuori dalle normali pratiche di quel genere. La gente non sa cosa fare, si guarda in giro, c’è chi continua a gridare - El scapa! El scapa! -. Qualcuno di noi si mette a ridere di gusto.

Passano solo pochi lunghi attimi.

Con alla testa un preoccupato Zuè e il macellaio imbufalito per la comica figura in cui è incappato, si lanciano tutti, ventre a terra, all’inseguimento del fuggitivo.

Conscio com’è che quella storia farà il giro delle sette chiese, come si soleva dire, diventando oggetto di commenti e lazzi a scapito della sua decennale immacolata reputazione, grazie alla quale può vantare all’attivo centinaia di maiali correttamente ammazzati e insaccati, il macellaio si lasca scappare irripetibili bestemmie.

Da quel momento succede un po’ di tutto, la dinamica degli eventi fu poi raccontata in tante fantasiose versioni.

A ogni buon conto, io, che la vidi e la vissi, la racconto come segue. Il maiale, arrivato davanti alla chiesa, voltat a destra evitando di entrare nel portone della Curt dei Bristula, dove abito anch’io, e si lancia sulla via principale del paese verso la piazzetta.

Dopo aver passato di gran carriera il cancello di Villa Bossi-Mantovani, poco prima dello spiazzo della piazzetta, si trova all’improvviso di fronte la sciura Rosa, la nonna di Roberto, che, appena uscita con la borsa della spesa dal prestinaio, gli ostruisce la strada.

La Rosa, mettendo a fuoco che cosa le stesse venendo incontro a tutta velocità, lancia uno strillo molto più acuto di quelli del mostro e, alzando in aria le braccia, fa cadere la borsa della spesa spargendo fresche michette che rotolano dappertutto in strada.

La povera bestia deve aver preso un altro spavento, ma non si ferma neanche a sentire la nonna di Alberto, che urla con le mani sulla faccia per non vedere:

- O signur! O signur! Un purcel in strada!

L’evaso si gira velocemente su se stesso e inizia a tornare sui propri passi. A quel punto però vede una massa urlante che gli viene incontro. Non avendo altre possibilità non ha la minima esitazione, gira di scatto a destra inforcando il portico della Curt del Purton e prima lui e dopo la corda che è attaccata alla sua zampa e che lui si trascina dietro sono spariti.

Il vociare ha fatto allarmare i vecchi dell’osteria della sciura Lisa, che si riversano sulla via per sentirsi dire da quelli che passano correndo dietro a Zuè e al macellaio:

- L’è scapa ul purcel! L’è scapa ul purcel de Zuè.

Così la fila degli inseguitori si va ingrossando.

Io e gli altri ragazzi, più veloci, superiamo Zuè e il macellaio, non più giovani e non più tanto allenati.

Senza indugio, ci infiliamo sotto il portone sulle tracce del fuggiasco; alle nostre spalle il gruppo si va sgranando a vista d’occhio, in coda il gruppo di vecchi usciti dall’osteria con ancora le carte del tressette in mano.

La povera bestia si sente braccata, ma non desiste, corre come un pazzo a zig zag lungo il cortile, cercando qualche posto dove andarsi a nascondere, ma noi la incalziamo oramai da vicino. Lui, come ha fatto l’altra volta, prende all’improvviso una decisione e punta dritto verso il cancello sempre aperto in fondo al cortile, che porta ai prati, ai campi che scendono lungo la collina. Passato il cancello, senza più confini, il maiale annusa aria di libertà.

- Sel passa ul cancel el ciapum pu - se passa il cancello non lo prendiamo più.

È Zuè a lanciare il grido di allarme:

- Correte, passategli davanti! – ci sprona, mentre noi l’abbiamo quasi raggiunto.

Noi ragazzi gli passiamo davanti, urliamo, alziamo le braccia per spaventarlo, lui, sorpreso, è costretto a scartare, non si rende conto che sta andando a infilarsi sotto il portico della stalla di Giorgio. Lì rimane bloccato, circondato da mezzo paese vociante.

Lo prendono e, questa volta, gli legano non una ma due zampe e lo trascinano al patibolo.

Sotto il portico, gli sono tutti addosso, lui urlando capisce che è la fine, lo rovesciano per terra, in quattro gli afferrano le zampe, altri gli premono le ginocchia sul corpo per tenerlo fermo; sono in tanti, lui invece è solo.

Apre il muso come più non può e grida senza sosta tutta la sua paura; gli occhi neri sembrano essere diventati più grandi da come sono fissi, persi, forse guarda loro, il pubblico che si accalca per vedere.

Il macellaio poggia un ginocchio per terra davanti alla gola, prende dalle mani della sorella di Zuè un catino di ferro laccato che lei prontamente gli porge, la donna ha anche in mano una grande padella, la tiene di riserva.

Il boia, così vedo adesso il macellaio, sistema con cura il catino sotto la tremolante gola, il maiale tiene la testa rivolta all’indietro nello sforzo di urlare il suo terrore e di allontanarla il più possibile dal suo carnefice, ma, così facendo, offre la gola.

La bocca della povera bestia è sempre più spalancata e tra quei denti esce un grido che sembra acuirsi ancora di più quando il macellaio affonda il coltello nella gola, molle come se fosse di burro, lo spinge in fondo in fondo, lo ruota, come a cercare qualcosa.

Un fiotto di sangue sgorga a fontana sulle mani, nel catino, sulla terra battuta del porticato.

Quelli che gli sono addosso, all’acuirsi del grido, alla vista del sangue sembrano eccitarsi, qualcuno mostra un sordo sorriso. Il macellaio continua a scavare col suo coltello, oramai lo squarcio è grande, lui è attento a raccogliere il sangue che schizza copioso, le grida non cessano ancora.

Il pubblico, alla vista del sangue, all’acuirsi del grido che si va soffocando, indietreggia, ondeggi, non distoglie gli occhi dalla scena.

Anche se non è la prima volta, non riesco a distogliere gli occhi da quella gola insanguinata, da quel muso aperto, non riesco a tappare le orecchie a quel grido.

Ho gli occhi fissi su quelli del maiale, mi sento in colpa per aver aiutato a catturarlo, per avergli negato una speranza di libertà, per averlo condannato.

Il catino è colmo di sangue, il macellaio lo porge alla donna, che gli passa la pentola che lui sistema sotto il suo coltello ancora affondato nella gola.

La sorella di Zuè, tenendo quel trofeo in mano, stando attenta a non far dondolare il sangue per non rovesciarlo, si avvia verso la porta di casa, lì vicino. Dal sangue caldo nel catino si alza un leggero vapore nell’aria fredda di dicembre.

Il grido si è affievolito, va a morire nell’aria, dopo poco, anche il sangue è finito, il macellaio toglie il coltello dallo squarcio, ha le mani insanguinate fin quasi ai gomiti. Toglie anche la padella e la passa a Zuè che si è fatto avanti; il sangue è prezioso.

Ora tutti hanno lasciato il corpo oramai immobile, ma non c’è tempo da perdere.

Dalla stanza, dove è stata messa a bollire l’acqua, Zuè e il fratello portano secchi di acqua fumante che il macellaio versa sul corpo del morto passandovi sopra le mani come accarezzandolo. Poi, mentre gli altri vanno avanti e indietro, con un grande coltello comincia a raschiare tutta quella tonda superficie rosa, per togliere i tanti peli che la ricoprono. Dove è passato il coltello, la pelle ora è pulita, è bella, liscia, il rosa è meno scuro di prima.

A un cenno del macellaio, prendendogli le zampe lo girano per depilarlo dall’altra parte.

Finita la rasatura, preso un piccolo aguzzo coltello, il macellaio gli incide le zampe posteriori, mette in risalto i tendini, in cui fa passare i ganci attaccati alle corde che servono per sollevarlo.

Lo tirano su, fino a quando il muso rasenta il pavimento, il corpo è pronto per essere squartato, ridotto in pochissimo tempo in tanti pezzi.

Nell’aia è tornata la calma, le grida disperate del maiale sono rimaste solo nella testa della gente, il lavoro è portato avanti in un silenzio quasi irreale, il corpo del maiale svanisce in tanti pezzi, che, ancora fumanti, sono portati dentro casa, dove si procederà a trasformarli in salami. La sorella di Zuè esce dalla casa con una bazilia in mano piena di bicchieri e una nera bottiglia di vino, poi si avvicina al portico, dove il macellaio e Zuè stanno finendo il lavoro.

Giorni dopo, io e i miei amici stiamo revocando l’episodio.

Roberto sta dicendo che siamo stati crudeli a non permettere al maiale di passare il cancello, siamo stati noi che lo abbiamo condannato a morte, mentre avremmo dovuto farlo scappare.

- Però quel maiale era buono - interviene Giorgio - mia madre ieri sera ha fatto cuocere il salamino che Zuè ci ha regalato per averlo aiutato a prenderlo, voi l’avete provato?

La produzione letteraria di Camillo Rigamonti

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