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Dai racconti ... ai romanzi di formazione ... ai romanzi corali

L’arcano sogno del dialogo

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ABBOZZI DEL TEMPO
VERI EROI

All’inizio di ogni estate, su quasi tutti i campi degli oratori dei nostri paesi cominciano i tornei di calcio.

In questi ultimi anni il paese ha allestito una bella, forte squadra, che si è sempre battuta con onore, mancando la vittoria in un paio di occasioni, solo per avverse condizioni ambientali e arbitrali. La squadra è reputata bella, per parere unanime di tantissime ragazze, in base all’incontestabile fatto che ha due difensori alti e slanciati; peccato, però, che sono troppo seri, si lamentano le ragazze. Il portiere è un tipo basso, riccioluto scuro, con un nomignolo strano che ne definisce il carattere, Ul Mat, e che non lascia dubbi sulle sue capacità tra i pali. A metà campo agiscono due ragazzi abili con la palla, motorini instancabili. Là davanti, a combattere contro le difese nemiche, brilla la stella di un beniamino del calcio dei nostri paesi, il Beppe, che gioca nella squadra del paese unicamente perché amico fraterno di uno dei due terzini. Il Beppe è odiato e accusato di essere un traditore dai suoi compaesani di Montesiro. Il trainer, allenatore o accompagnatore che dir si voglia, è il Belo, così chiamato non proprio perché bello o affascinante, ma perché lui crede di esserlo, mentre è solo molto simpatico e disponibile.

Il torneo serale dell’oratorio di Besana è un appuntamento estivo irrinunciabile, considerato di prestigio tra i tanti che si tengono nei dintorni.

Si gioca su un mitico campo che non ha mai visto un filo d’erba da quando è stato costruito. Dal fondo duro, molto duro, con qualche piccola innocua depressione, poca sabbia qua e là, ha però un mitico sasso affiorante a filo del terreno, vicino a una porta, che per fortuna, è stato levigato dall’incessante lavorio quotidiano dei calciatori che si avvicendano in ogni stagione dell’anno. Il campo di calcio è il cuore pulsante dell’oratorio, ricavato a metà costa della collina alle spalle della chiesa che dà sulla piazza principale. Ha due alti muri di contenimento, quello più lungo guarda la piazzetta, dove passa la strada che viene dalla piazza principale, il più corto è posto di fronte alla casa di Don Carlo, il prete che gestisce l’oratorio.

È da questo lato che si accede al livello del terreno di gioco, dove sorgono gli altri edifici.

Sulla sinistra un porticato, usato anche per i giorni di pioggia, con un paio di vetusti calciobalilla. Segue il salone del cinemateatro, che confina con gli edifici di fondo, il cui retro del palco viene usato come spogliatoio per gli attori o i cantanti che si esibiscono. Il bar, dove i ragazzi sperperano le esigue “mancette” e i furtarelli di spiccioli in famiglia per comprare disgustosi dolci d’ogni genere; lunghe stringhe di soffici caramellati, neri rotoli di liquirizia, immancabili tipi di “cicca americana”, scatolette con pastiglie di vari tipi, colori, biscotti wafer, friabili crumiri, appetitosi pacchetti di patatine fritte, intrugli liquidi come spume, bibite di tutti i colori e sapori, e poi i gelati, i famosi ghiaccioli.

Proprio in mezzo al lato di fondo, dietro la porta del campo, c’è un porticato non molto grande, con un portone di legno massiccio sempre chiuso, che ha in mezzo una piccola porta che si affaccia sulla strada in discesa. A seguire c’è un locale usato come spogliatoio dei giocatori, sull’angolo trovano posto due misere docce, un paio di cessi, sempre un po’ puzzolenti. Lungo il lato di fronte al cinemateatro corre un muro di poco più di un paio di metri a contenimento del prato del verde parco sovrastante, che fa parte dell’enorme giardino posto alle spalle della chiesa. Questo parco , nei giorni normali chiuso ai ragazzi dell’oratorio, viene aperto solo nelle sere del torneo per far posto agli spettatori paganti e urlanti.

È in questo infocato anfiteatro che si disputano gli innumerevoli scontri tra le squadre iscritte al torneo.

Gli spettatori sono assiepati a pochi centimetri di distanza su ogni lato del campo, tanto che si devono scostare quando un giocatore fa una rimessa laterale o tira un calcio d’angolo. Un alto vociare di fondo accompagna ogni partita dall’inizio alla fine, vociare che poi si accentua in grida di giubilo o in imprecazioni di disperazione che accompagnano quasi ogni azione; quelle urla si sentono anche a chilometri di distanza. C’è anche chi, preso dalla foga e dimenticandosi del luogo, bestemmia grasso: Don Carlo ha il suo bel daffare a far finta di non sentire o a rimbrottare con una certa energia quelli che sente.

Succedono spesso anche zuffe, partono scazzottate, di norma circoscritte, ma che a volte dilagano in vere e proprie battaglie, coinvolgendo molti spettatori.

Anche in questo caso si vede Don Carlo buttarsi nella mischia aiutato dai suoi collaboratori a frenare, dividere, urlando anche lui come un ossesso, non disdegnando di menar le mani se lo ritiene necessario. Non arriva, almeno nessuno lo ha mai sentito, a proferir bestemmie, ma usa un suo particolare linguaggio molto colorito, ammesso dalle gerarchie ecclesiastiche. Il torneo si svolge a cavallo tra giugno e luglio, le partite si giocano a partire dalle otto, hanno una durata di quaranta minuti, si giocano due o tre partite per circa tre giorni la settimana. Le finali si giocano il sabato sera.

È un sabato sera quello che passiamo affacciati alla finestra della cucina, che da sulla piazza, ad ascoltare, insieme a tutto il paese, le urla che arrivano da dove si sta giocando la finale del torneo, tra noi e il Besana.

Noi vuole dire la squadra del paese e loro sono il Besana, la squadra dell’oratorio, quella più titolata, quella che più spesso vince il torneo, quella che gioca in casa, quella sempre favorita, quella da battere, quella da noi più odiata.

Sono partiti come per andare in guerra, quando ancora era chiaro.

Noi li abbiamo visti dalla finestra, radunati sulla piazza davanti alla chiesa, fuori dal circolino familiare. Ci sono tutti i giovani del paese, tutte le ragazze, le belle, le meno belle, le madri, i padri, i fratelli, le sorelle. Forse manca qualche nonno che non ci sente più, non capisce più cosa sta succedendo, è stato lasciato a casa sorridente seduto sulla sua sedia a guardare chissà dove e divagare con se stesso. Tutto il resto del paese è lì a guardare i suoi eroi, hanno già fatto il miracolo di disputare la finale, di avere la possibilità, finora impensabile, di vincere il torneo. Di fronte hanno, come sempre, “quelli là”, quelli del Besana. È uno scontro sentito da molti come il duello tra Davide e Golia, una storia che piace alla gente e che qualche volta Don Giuseppe ha raccontato dal pulpito nelle sue meditazioni.

La folla si stringe attorno alla squadra, i ragazzi guardano con ammirazione, con invidia, i calciatori.

Le ragazze cercano di rubare uno sguardo, un sorriso, agli eroi, tutti si agitano e alzano il tono di voce. C’è chi fa discussioni su come andare a Besana, su come tornare se si dovesse perdere, ma c’è anche chi dice cosa si farà in caso di vittoria, chi fa gli auguri, chi gli scongiuri. In famiglia, come tutto il paese, abbiamo mangiato qualcosa presto, poi mio padre eccezionalmente per lui a quell’ora, è andato a sedersi a un tavolo della sciura Lisa. Con il bicchiere di vino in mano chiacchiera, sbuffa, come al suo solito, lancia fosche previsioni, una sfacciata manifestazione di scaramanzia.

Mia madre, seduta al tavolo, cerca di leggere un giornaletto che ha preso chissà dove.

È evidente che non ci riesce, lo sta solo tormentando, sciupa la pagina nell’angolo, per tutto il bordo, lo arrotola, gira e rigira. Lei, al suo prediletto figlio Luca, celebrato terzino e artefice con tutta la squadra di quell’impresa, ha lavato alla fontana, a turno con le altre mamme, le sudatissime, odorosissime, rossissime magliette, i calzoncini che, nonostante le apparenze attuali, sono stati, un tempo, bianchi, i lunghi calzettoni con la bella striscia rossa sul gambale.

Senza bisogno di un segnale particolare, la gente comincia ad avviarsi.

Chi si avvia a piedi, chi in bicicletta, qualcuno in moto, nessuno in macchina, chi prendendo i sentieri, chi la strada verso la Madonnina. Qualcuno nel passare davanti alla venerata immagine sussurra preghiere, fa voti, giura, spergiura, fa promesse che non manterrà mai.

Poi i tanti che sono rimasti vedono uscire dal portone del nostro cortile che dà sulla piazza il Lionello.

Alto ritto in piedi sul suo carro, mentre il figlio siede a cavalcioni della stanga, ha in mano le redini per tenere a freno l’esuberanza del suo bel cavallo, nero come la pece, che scalpita nervoso. Passando davanti a quelli seduti ai tavoli del circolino, che lo guardano con aria interrogativa, li informa di aspettarlo, perché tornerà trionfante con tutta la squadra sul carro e la coppa della vittoria. La trovata si diffonde all’istante in tutto il paese, i più la condividono con passione, tanti altri sprecano commenti che girano tra i tavoli delle osterie, tra le donne sedute a ciacolare fuori dalle case, dai portoni.

Dopo tutto quel colorato, festoso trambusto, la gente rimasta, che non è poca, abbassa il volume della voce fino a quando non viene a crearsi un silenzio irreale.

È iniziata l’attesa, sembra che tutti stiano trattenendo il respiro, o bisbigliano. Con mia sorella guardiamo verso Besana, seguiamo il via vai della piazza. Dopo poco vado a sdraiarmi sul sofà, Rosella e mia madre intorno al tavolo chiacchierano.

All’improvviso, da lontano arriva un urlo: deve essere iniziata la partita.

Parole di emozione corrono dalla piazza lungo la strada fin giù in fondo al paese, entrando in tutti i cortili, in tutte le case. Noi ci affacciamo di nuovo alla finestra guardando in basso, tendendo bene le orecchie.

Il clamore subisce alti e bassi, può significare di tutto; per noi, per loro.

- Senti come urlano! - dice Rosella - sono i Besanesi che hanno segnato - aggiunge a bassa voce, con uno strano sorriso sul volto.

- Non dire stupidaggini! - si arrabbia la Francesca - sta zitta, che porti sfortuna, tieni d’occhio piuttosto la piazza e vedi se arrivano notizie.

La piazza è animata da sussulti, ci sono quelli attaccati alla sedia del circolino, le donne sedute di fronte ai portoni, gli altri si muovono, vanno avanti e indietro. A un certo punto, dalla Curt di Maravea, arriva la Peppa, dice qualcosa ai primi che incontra, quelli seduti fuori del circolino.

Ascoltano, sembrano guardarsi in giro, altre persone si avvicinano a chiedere, per sapere.

Rosella intuisce la novità e chiama:

- Caterina! Cosa dicono, cos’è successo? - chiede con una certa apprensione.

- Era la Peppa che diceva che suo figlio Giulio le aveva promesso di venire a portare notizie con la moto - conclude lei.

Giulio è l’unico in paese che ha studiato fino a diventare ragioniere e che, per questo, può vantare un solido impiego in città e un brillante inizio di carriera politica, ovviamente nello Scudo crociato, come rappresentante del paese in Comune, a Besana.

È lui il motore del “sociale” del borgo, delle cascine annesse, capace di organizzare quasi tutto, dalla festa del paese alla gita parrocchiale, alla distribuzione dei sussidi per le famiglie povere e bisognose. È con questo che si guadagna la percentuale bulgara di voti di preferenza alle elezioni.

- Tieni d’occhio la strada! - disse mia madre - quello lì - intendendo il Giulio - è un “pretino” di quelli giusti e, se l’ha promesso, vedrai che prima o poi arriva.

Intanto il clamore che proviene da Besana si è un po’ attenuato, dopo non molto, Rosella sta per allontanarsi quando si sente il rumore di una moto che scende a spron battuto dalla Madonnina. Io mi sporgo quasi rischiando di cadere, Rosella, con uno dei suoi gesti da mamma, mette una mano protettrice sulle mie spalle.

Tutta la piazza pare sentire la moto, tutta la piazza, pare, è con il fiato sospeso.

Dopo pochi attimi, il bolide fa il suo ingresso rombando sulla scena. È l’Arturo, con la sua bella Gilera, che porta dietro, aggrappato a sé, come un gatto a un cuscino, il ragionier Giulio.

Con aria tronfia il centauro fa una manovra da campione passando davanti alle scale della chiesa, andando a fare il giro di tutta la piazza fino a ritornare e fermarsi davanti al circolino, dove è subito circondato da mille occhi, sommerso da mille domande.

Il ragionier Giulio riemerge da dietro le ampie spalle dell’Arturo, che tiene la moto accesa e rombante, dando continuamente gas con l’intenzione di ripartire subito. Da consumato politico, si rassetta un poco alzandosi sul predellino e, come se si trattasse di un comizio dichiara:

- Stiamo pareggiando! Abbiamo segnato prima noi, poi loro ci hanno raggiunto - fa una pausa per pesare le parole - se teniamo in difesa, forse possiamo vincere.

Poi, senza nemmeno salutare, dà un colpo sulla schiena all’Arturo, che si appresta a partire facendo segno di spostarsi a quelli che gli si erano messi davanti.

Rosella trasmette subito le notizie a mia madre:

- Pareggiano -. La Francesca però non dice nulla, continua a torturare la rivista.

L’Arturo parte a razzo su per la salita della Madonnina con quel povero gattino attaccato alla schiena.

Proprio in quel momento si sente un boato di entità maggiore del normale provenire da Besana: può solo significare che si è segnato un gol.

Ma da che parte?

L’abbiamo segnato noi o quei simpaticoni del Besana? La gente in piazza si sta chiedendo proprio questo. Il brusio si è ora attenuato, hanno ripreso il gioco, tutti si sono zittiti, in attesa che succede qualcosa.

Si sente il rombo della Gilera dell’Arturo, sta facendo la salita di Villa Ferrera, tutti si concentrano, occhi e testa verso la Madonnina, da dove comparirà il messaggero.

Irrompe nella piazza, rallenta, fa il giro, il ragionier Giulio si è messo in piedi sui sostegni, per non cadere è aggrappato con un braccio sotto il collo dell’autista, rischiando di strozzarlo. Agita in alto l’altro braccio come una bandiera e urla a squarciagola, ha gli occhi fuori dalle orbite:

- Vinciamo! - continua a urlare - Vinciamo! Stiamo vincendo!

L’Arturo, senza proprio fermarsi, riparte su per la salita.

Dalla piazza sale un gran clamore, che però s’interrompe subito, come se tutti avessero avuto la stessa idea; occorre tendere l’orecchio, sperare di non sentire più nessun urlo.

Il clamore arriva dopo poco e fa gelare il sangue nelle vene a mezzo paese.

- Cos’è successo? - chiede mia madre nervosa - Chi ha segnato? - domanda ben sapendo che nessuno può in quel momento avere la risposta.

Dalla piazza qualcuno urla eccitato:

- Se sentiamo la Gilera, vuol dire che abbiamo segnato noi.

Ma il clamore si attenua e la Gilera non si fa sentire.

Sono tutti con le orecchie dritte, posizionate nella direzione di Besana, ma niente, non si sente niente.

L’apprensione aumenta, si materializza e aleggia in mezzo alla gente, che a quel punto comincia a pensare al peggio e bisbigliare. Qualcuno si porta le mani alla faccia, il solito pessimista si alza dal tavolo davanti al circolino, sferra un gran pugno e bestemmia:

- Porc…, va a finire come due anni fa, non ce la facciamo!

Stanco, vado a sdraiarmi sul divano, Rosella si è seduta di fronte alla mamma, si stanno scambiando occhiate di preoccupazione.

Il rombo della Gilera si materializza dopo poco, sembra essere meno forte dell’altra volta, non ha fretta, gran brutto segno. Arriva infatti a velocità quasi normale, si ferma subito, senza fare il giro della piazza, l’aria è pesante:

- Facciamo i supplementari! - annuncia senza entusiasmo il ragionier Giulio senza alzarsi sui sostegni.

- Quei maledetti hanno pareggiato proprio negli ultimi minuti, - spiega - speriamo che i nostri non siano troppo stanchi – conclude, facendo segno all’Arturo di ripartire con una pacca sulla spalla.

Rosella riferisce alla mamma.

- Luca sarà sicuramente stanco! - continua a dire come a se stessa - Ha lavorato tutto il giorno anche oggi - poi, come per darsi coraggio - lui però è giovane e forte, come del resto è anche Eligio - facendo riferimento al nipote della sciura Lisa, l’altro terzino.

- Sono sicura che vinciamo noi - dice alla fine facendo girare la mano sul tavolo come quando toglie la polvere da un mobile, ma non ha nessun panno tra le dita.

La partita deve essere ripresa, il clamore si è di nuovo accentuato.

I minuti passano, non cambia nulla, la gente si morde le unghie, si passa le mani tra i capelli, le donne chiacchierano a bassa voce. Solo due, i soliti diversi, stanno giocando a carte, mentre gli altri soffrono. Si sa che i tempi dei supplementari sono di dieci minuti, ma a molti sembra che siano già passati da tempo.

Esplode un urlo, alto, intenso e, come le altre volte, sembra che tutto si fermi.

Sono attimi lunghi, tesi, il clamore non diminuisce, la Gilera non si sente.

- Abbiamo vinto noi! - dice la mamma alzandosi e avvicinandosi alla finestra. Proprio in quel momento si sente l’Arturo dare gas alla sua Gilera, su per la salita.

La produzione letteraria di Camillo Rigamonti

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